Andreas Fogarasi è come una matrioska russa, identificabile, nel suo caso, come un insieme
eterogeneo di identità e ruoli che compongono poi una somma maggiore delle sue parti: un artista
acuto indagatore, da sempre, dei processi di trasformazioni urbane.
Archeologo, antropologo, architetto, osservatore, ma soprattutto assemblatore. Un ibrido
sfaccettato che converge nella sua figura di artista. Un po’ come le sue opere emblematiche,
Andrea è il risultato di una sovrapposizione di strati, che seppur diversi tra loro, dialogano nel
loro insieme concludendosi in opera. Andreas Fogarasi si conclude nella figura di artista.
Il suo lavoro ha origine molto prima della composizione stessa dell’opera. Osserva in modo
strategico, con audacia, con curiosità il mondo che gli sta intorno, il mondo che cambia e il
mondo che scompare; reperisce tutti i materiali che possono costituire una fonte d’ispirazione, la
sua attenzione viene continuamente sollecitata dalle costruzioni, dagli edifici, dal loro significato
odierno e passato e da ciò che ne rimane oggi. Come un antropologo studia il cambiamento nel
corso del tempo delle città. Le città appunto, che con le loro composite superfici rappresentano il
focus, dal quale partire e ritornare, dell’analisi di Fogarasi. Diventano specchio di ciò che sono
la società, la politica, la storia, il quotidiano. Diventano protagoniste del lavoro osservatorio e
artistico di Fogarasi.
Ogni Stato, ogni città, presenta una sua identità culturale, storica che inevitabilmente si riflette sul
tipo di costruzione costruita nel passato e nel presente. La mappatura della città diventa mappature
di identità, di processi politici e sociologici. Quanto del periodo storico passato e odierno si riflette
sulla scelta estetica, e non solo estetica, di un dato edificio? Perché un edificio viene costruito
seguendo standard estetici variabili nel tempo? Fogarasi esplora, come uno studioso sul campo,
i meccanismi con cui l’architettura e lo spazio pubblico sono costruiti sia come luoghi di esperienza
quotidiana, sia come spazi definiti, appunto, da interessi politici, economici e culturali. Per far
ciò, come un archeologo, preleva il materiale dal suo ambiente e lo utilizza con il vocabolario
del minimalismo, ma aspirando alla pittura parietale. “Con i miei lavori documento il cambiamento
urbano. Seleziono i miei materiali da edifici che sono stati demoliti o trasformati. Creo immagini
di queste trasformazioni. Sono immagini astratte, o meglio ritratti astratti, ritratti di trasformazioni
urbane, composizioni quadrate o rettangolari che parlano di qualcosa. Sono una testimonianza
visiva di un qualcosa che è stato. Spesso ricerco specifiche costruzioni e parlo anche con i
proprietari e gli architetti. Qualche volta semplicemente camminando vicino ad una demolizione,
spontaneamente prendo qualcosa con me, o chiedendo, o semplicemente appropriandomene”.
Intuiamo quindi che l’assemblamento dell’opera è il risultato finale di un lavoro di ricerca, di un
processo di reperimento minuzioso. Fogarasi si riferisce a questi materiali come dei fuggitivi, la
loro destinazione naturale dovrebbe essere il riciclaggio o la spazzatura. Invece lui se ne
appropria, li eleva ad opera d’arte. Gli dà un valore estetico e culturale, ma, soprattutto, di
testimonianza di luoghi che non esistono più. Quasi a volerli tenere ben saldi insieme, decide di
legare i materiali con bande d’acciaio. Per creare una sorta di tensione. Che si percepisce
esaustivamente. Ogni materiale, seppur di diversa natura, ha una propria storia. Il legno, la pietra,
il metallo, la ceramica, il vetro e la plastica hanno una storia a sé, non solo a livello concreto di
materiale ma an che in modo astratto, attraverso la loro provenienza. Alcune opere i materiali
uniti non risalgono alla stessa epoca o allo stesso luogo o allo stesso tempo. Sono costretti cosi,
armoniosamente ad una convivenza artistica ed estetica. Una storia di anni e secoli che Fogarasi
sigilla insieme in un pacchetto, facendoli diventare, da pezzi di scarto, protagonisti. Li compone
in una forma rigorosa ma, allo steso tempo, elegante e armoniosa, che li trasporta alla dimensione
pittorica pur mantenendo la loro identità di sculture. E’ un richiamo o un rimando all’Arte Povera,
che ci insegna Germano Celant con i suoi materiali poveri, ma raffinati, dove l’arte diventa anche
un evento mentale e comportamentistico,con la concezione antropologica. “I suoi lavori coniugano
architettura, design e belle arti con la ricerca sociologica urbana della realtà che lo circonda.
Esplora luoghi dimenticati e ne racconta la loro storia, senza tralasciare una critica alle strutture
del sistema economico, politico, culturale e sociologico”. Nasce cosi la serie Nine
Buildings,Stripped.
Questo è il processo cognitivo alla base del lavoro di Fogarasi. Processo che si può
meticolosamente trovare, ma in modi diversi, negli altri due progetti presentati qui in mostra: Cities
e Sights. Cities è un progetto nato dall’ironia, da un’opera di collezionismo dello stesso artista
che, nel suo raccogliere materiale promozionale delle varie città visitate, si è reso conto di come
spesso, queste città sono introdotte a noi con un’autoreferenzialità sempre positiva, mai
negativa.”Molte volte le etichette non sono spesso adatte, sono come delle pubblicità fantasiose”.
Città della cultura, città dello sport, città dell’amore. Fogarasi crea delle nuove etichette. E lo fa
semplicemente scegliendo di disegnare su carta semplice con una grafite uniforme le proprie
ironiche etichette senza però svelare di quale città si tratta.
Per il lavoro Sights, Fogarasi tocca sempre il concetto di città nelle sue rappresentazioni, ma, in
questo caso, nella sua forma ironica e quasi critica. Ricorre alle mappe. Ogni mappa presenta
icone astratte di numerose costruzioni. Le ritaglia: “Io creo un’immagine alternativa della città, una
rappresentazione astratta basata sui valori culturali dati dal momento”. Cosa significa? Significa
che anche le mappe nel loro ruolo di guida sono pilotate dal momento culturale e storico in cui
sono realizzate. Molte volte ritroviamo costruzioni storiche e turistiche, ma oggigiorno alcuni edifici
sono creati per diventare delle icone. Qui ci ritroviamo di fronte al concetto di ritratto manipolato
e non sempre veritiero, succube di valori culturali e politici. Ci troviamo spaesati allora di fronte
alle mappe che l’artista pone alla nostra attenzione. Seul, Berlino, una passeggiata nel cuore
dell’EU. Un gioco ironico di riconoscimento e non riconoscimento di mappe che sono state
destabilizzate della loro natura di guidare. Non siamo più guidati secondo i canoni classici ma
secondo quelli costruiti dall’artista.
Mi piace concludere questo testo con la domanda più classica che si possa fare ad un artista: “
Qual è lo scopo o il messaggio che vuoi trasmettere attraverso la tua arte?” Vi affido la sua
risposta: “Io faccio rappresentazioni di posti, che contengono cose non viste o dimenticate. Loro
mostrano la complessità della società e i suoi testamenti costruiti, e gli effetti e le illusioni della
comunicazione e del marketing. Il mio lavoro è minimalista, per essere capace di focalizzarsi su
specifici aspetti. Io provo a isolare certi meccanismi. Il lavoro si basa sul guardare, osservare –
cosa è mostrato a noi e cosa no e perché. Io disegno parallelismi Traccio un parallelo tra questi
spettacoli di coinvolgimento e identità, e penso che il risultato sia da qualche parte tra l’eredità
dell’arte astratta e della pubblicità contemporanea”.
Giulia Papa